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L'ANTISTORIA

MONASTERO DI SANTA CHIARA - LA VICENDA DELLA SUA COSTRUZIONE

Monastero di Santa Chiara - Stemma Valentoni
STEMMA ARALDILCO DELLA FAMIGLIA VALENTONI DELLA QUALE SI PARLA IN QUESTA VICENDA

La storia della nascita del monastero di Santa Chiara, oggi sede del municipio di San Marco Argentano, non è mai stata raccontata nella sua interezza e credo che pochi sappiano dove esso doveva originariamente sorgere e i retroscena che ne fecero cambiare il sito.
La vicenda è scritta nella Platea delle Clarisse dell'anno 1632, ma, essendo collocata verso la fine e in un capitolo riguardante un censo, appare abbastanza sfumata nella sostanza e soprattutto di difficile comprensione.
Vediamo di capire che cosa accadde.

Pompeo Valentoni, dietro richiesta di don Andreace Arduino, fece una donazione di cinquecento ducati per la costruzione del monastero con la clausola che esso dovesse sorgere nella chiesa di San Giovanni (oggi museo diocesano). Nel momento in cui si dovevano iniziare i lavori, per la cui esecuzione erano già state acquistate e predisposte la calce e le pietre, Pompeo Valentoni cambiò idea e pretese che la costruzione fosse fatta più a monte, nel luogo dove c'erano alcune case di monsignor Frassia, dove di fatto fu costruito il convento, oggi municipio.
Stando a quanto dichiarò don Andreace Ardoino sotto giuramento, Pompeo Valentoni pretendeva che una casetta di sua proprietà del valore di appena venti ducati, sottostante alla chiesa di San Giovanni e rientrante nel complesso monastico da realizzare, gli fosse pagata all'esorbitante prezzo di cinquecento ducati, ovvero l'equivalente della sua donazione.
Le perizie stabilirono che il valore reale del piccolo immobile non superava i venti ducati, ma il proprietario si mostrò irremovibile. Nasce spontanea l'ipotesi che egli volesse recuperare quasi per intero la sua donazione, ma visto che fu egli stesso ad indicare una diversa ubicazione, ovvero le case di monsignor Frassia, l'ipotesi non regge, in quanto non avrebbe recuperato la somma elargita.
Se l'ipotesi non regge, nasce, tuttavia, un dubbio: ma quei cinquecento ducati Pompeo Valentoni li aveva già dati o li aveva solo promessi?
A questo punto dobbiamo fare un piccolo passo indietro e iniziare dal punto in cui nella Platea è spiegato come e perchè le monache di Santa Chiara fossero proprietarie di una vasta proprietà da Santo Marco alla Riforma, un tempo di Pompeo Valentoni.
Ecco la spiegazione.
Pompeo Valentoni lasciò scritto nel suo testamento che i suoi eredi elargissero cento ducati al monastero delle Clarisse. In contanti. Chi erano gli eredi di Pompeo? Erano i figli Mutio, Genua, Antonia e Beatrice Valentoni. Alla morte di Mutio, senza eredi diretti, l'intero patrimonio Valentoni toccò in parti uguali alle tre sorelle, assieme all'obbligo voluto da Mutio nel suo testamento di corrispondere al monastero mille ducati. Nella ripartizione tra le sorelle, la proprietà da Santo Marco alla Riforma toccò ad Antonia, mentre l'obbligo di dare i mille ducati alle Clarisse spettò a Genua, la quale diede i mille ducati in due rate. Nello stesso tempo Antonia vendette la proprietà anzidetta alle monache per mille e cinquanta ducati, pagati in due rate: ottocento una volta e decentocinquanta a saldo.
In quella che appare come una 'partita di giro' si innesta la vicenda poco chiara del testamento di Mutio, il quale, stando alla dichiarazione che don Andreace Arduino scrive nella Platea, avrebbe destinato duemila, e non mille, ducati a favore del monastero, dicendo che voleva raddoppiare quanto aveva donato suo padre Pompeo.
Per quanto ci risulta da ciò che abbiamo letto, Pompeo avrebbe dato, o promesso, solo cinquecento ducati, salvo che non ne avesse lasciati per testamento altrettanti. A parte ciò, don Andreace Ardoino svela un fatto incredibile. Il notaio che avrebbe dovuto attestare le ultime volontà di Mutio Valentone, dolosamente e per motivi ignoti, cancellò uno zero dalla cifra 2000 trasformandola in ducati duecento.
Accadde che la giustizia divina non tardò a fare il suo corso: dopo alcuni giorni la mano del notaio si assiderò, qualche tempo dopo l'autore dell'atto fraudolento rimase cionco di entrambe le mani, e nonostante avesse ammesso pubblicamente di essere stato giustamente punito da Santa Chiara, in breve tempo di ammalò gravemente e morì. Questo narra don Andreace, aggiungendo che Genua Valentone e suo marito Lucantonio Rende Barone di Rosito provvidero a sborsare quanto Mutio aveva deciso di donare al Monastero, o per essere precisi quanto risultava dall'atto del notaio: duecento ducati.
A questo punto leggiamo quanto avevo anticipato, ovvero la pretesa di Pompeo Valentoni di cinquecento ducati in cambio di una casetta che ne valeva solo venti. Ma c'è un seguito imprevisto. Don Andreace Ardoino spiega che eretto il monastero là dove erano le case di monsignor Frassia, a distanza di dodici anni, pendeva ancora la causa tra le monache e gli eredi Valentoni per ottenere i cinquecento ducati promessi da Pompeo Valentoni responsabile della mancata edificazione del convento nella chiesa di San Giovanni.
La storia del notaio punito dalla Divina Provvidenza puzza di frode, nel senso che i presunti duemila ducati non hanno alcun fondamento e sono il frutto di una affermazione giurata di don Andreace Ardoino, il quale attribuisce a Mutio Valentoni la volontà di dare il doppio di quanto avrebbe voluto dare suo padre Pompeo! volontà che non risulta da nessuna parte. Per non dire che neppure i cinquecento ducati di cui si parla all'inizio e che diventeranno oggetto di lite giudiziaria compaiono in alcun atto se non nell'affermazione fatta da don Andreace.


San Marco Argentano, 18 ottobre 2023

Paolo Chiaselotti
Vedi anche Quando il notaio si accioncò ...
Nel testo latino riguardante la proprietà da Santo Marco alla Riforma c'è un importante riferimento allo stato dei luoghi dell'epoca. C'è scritto che in questa proprietà, limitata solo da strade, non esiste altro che una torre e le sue mura. Avevo interpretato la definizione della torre dell'estensore del documento, don Andreace Ardoino, medietas turris come torre medievale, ma il dr. Enrico Tassone in un suo cortese post su Facebook del 29 agosto 2023 ha fatto notare che la dicitura Medio Evo, inteso come epoca storica, compare nel 1688, quindi cinquant'anni dopo la Platea delle Clarisse, per cui l'unica possibile interpretazione doveva riferirsi all'età approssimativa della torre, ovvero un'età media sua propria e non di un periodo storico.. In tal senso l'estensore del documento non da un'attribuzione specifica di stile, di committenza o epoca storica, ma ne individua approssimativamente gli anni calcolandoli dalla fondazione della città, (secolo XI) all'anno in cui egli scrive (secolo XVII), per cui ne scaturisce un'origine intermedia databile intorno al XIV secolo. Semplificando, quel medietas turris sta per torre di mezz'età.
Ringrazio vivamente il dr. Tassone per aver messo la sua competenza e la sua inappuntabile deduzione a servizio degli altri, spiegando finanche i vari passaggi interpretativi che conducono al risultato finale. Ho provveduto a riportare la sua esatta interpretazione, col nome del suggeritore, lasciando nello stesso tempo la mia interpretazione intuitiva e sbagliata, per dar modo a chi legge di apprendere meglio e di più.


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