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L'ANTISTORIA


PRIMA DEL GUISCARDO - Prato e Santa Venere.

Santopoli - San Marco In questa seconda puntata riguardante gli antichi abitatori delle nostre contrade mi atterrò al contenuto di due documenti, in originale due pergamene, un Praeceptum e un Diploma, facenti parte delle "Carte latine di abbazie calabresi provenienti dall'Archivio Aldobrandini", pubblicate a Roma nel 1958 da Alessandro Pratesi per la collana Studi e Testi della Biblioteca Apostolica Vaticana.

I due documenti riguardano l'Abbazia della Matina, e hanno per titolo Notitia de Dedicatione Ecclesia Sanctae Mariae de Matina e Roberti Guiscardi Ducis Diploma, entrambi datati 31 marzo 1065.
In essi possiamo trovare non solo informazioni su una popolazione presente in una nostra contrada all'epoca del Guiscardo, ma finanche i nomi degli abitanti 1.
Sono in tutto ventotto rustici, alcuni dei quali presentati con il solo nome, altri anche con il cognome, e quattro con la professione: un monaco, un tabulario, un presbitero, un "papa" (sacerdote bizantino).
Dove abitavano? Risiedevano tutti a Prato, indicato con l'appellativo di "vicus", villaggio.

Nei documenti si dice chiaramente che costoro, con le loro terre, venivano 'donati' dal loro 'proprietario', il duca Roberto, all'abbazia della Matina. È probabile, quindi, che i 'rustici' abitassero a Prato prima dell'arrivo del normanno e che facessero parte di una comunità organizzata su base territoriale.
Dagli stessi documenti ricaviamo la notizia che Roberto il Guiscardo e la moglie Sichelgaita, pur possedendo terre, monasteri, chiese, mulini in un comprensorio che si estendeva dalla Valle del Mercure fini a Valle Crati e Cetraro, non vantavano pieni diritti su Prato e Matina visto che dovettero riscattarli al prezzo di trenta schifati 2 dal vescovo di Malvito.
Il dato di fatto che si ricava dai documenti è che la popolazione di Prato preesisteva all'arrivo dei normanni e dalle testimonianze degli storici contemporanei non risulta che fosse mai entrata in conflitto con il Guiscardo, né fosse fuggita per rifugiarsi in un castrum più sicuro.
A questo proposito Goffredo Malaterra nel "De Rebus Gestis" mette in bocca al dapifer, il primo ad accorgersi che le scorte alimentari erano finite, l'impossibilità di procurarsi cibo, finanche dove si poteva andare in pace (ubi cum pace adiri posset), segno che esistevano villaggi o casali o addirittura castra appartenenti a persone amiche o "intoccabili". È lecito pensare, da tutto quanto sopra detto, che Prato rientrasse tra questi? Penso proprio di sì, mentre è difficile stabilire se essi fossero stati sottomessi e costretti a lavorare da altri, prima dell'arrivo di Roberto, o se fossero liberi 'villani'.
Il fatto, però, che avessero hereditates in Malvito fa propendere per questa seconda condizione, ma la loro cessione assieme ai beni che possedevano, entrambi di proprietà del duca (sicut ipse tenebat), mi fa sorgere il dubbio che non si trattasse di servi, nè di uomini liberi, ma di 'prigionieri'. Anche in questo caso, prigionieri legati per eredità a Malvito farebbero supporre un conflitto, non documentato, da parte del Guiscardo con quel castrum, per non parlare del pagamento di diritti ad un vescovo che in tal caso doveva essere stato sottomesso!
Non sono in grado di dare una risposta a questa apparente incongruenza, per cui continuo a rendervi partecipi delle mie ricerche di altre presenze nel territorio oltre il vicus Prato, con l'obiettivo di stabilire se anche a monte, dove Roberto si era insediato, vi fossero altri abitanti.

Alcuni toponimi mi inducono a ritenere che alcune zone oggi incluse nel territorio di San Marco fossero abitate al pari del vico Prato ed a conferma di questa mia supposizione intervengono ancora una volta le pergamene suddette, dalle quali apprendo che Roberto e la moglie Sichelgaita donarono all'abbazia della Matina la chiesa di Santa Venere con casale, vigne, terre e boschi "in castello Sancti Marci".
I sammarchesi sanno che col nome di Santavennera è tuttora chiamata una contrada prossima a Santopoli. Per esservi nel 1065 una chiesa ed un casale, e soprattutto vigne, dovevano esservi coloro che andavano in chiesa o coloro che coltivavano vigne o che facevano entrambe le cose. Nel caso di Santa Venere il documento non cita proprietari, né nomi di abitatori, né un signore o vescovo cui spettassero diritti, segno che doveva trattarsi di una comunità con ampia autonomia, probabilmente religiosi.

Il territorio doveva essere molto vasto, tanto che in documenti successivi Santa Venere compare anche unita alle contrade Santo Stefano e Perizito, quest'ultima facente parte della sovrastante Conicella. La sua estensione andava dal vallone omonimo fino a Santopoli e a Castrocucco sul versante orientale, mentre dal lato opposto doveva attraversare l'attuale abitato, dall'area sottostante la torre fino alla Conicella.
Lo desumo dal fatto che gli effetti della donazione del casale di Santa Venere "cum vineis, terris et silvis" consentiranno più tardi la fondazione a monte, in località Conicella, di un monastero cistercense, residenza estiva degli abati dell'abbazia della Matina e dei vescovi di San Marco. E ancora, nel Seicento, la vasta area denominata Santo Stefano sarà occupata dai minimi di San Francesco di Paola, fin sotto la torre, nell'attuale giardino Iacovini, che conserva significative tracce della presenza dei religiosi.
Il territorio sul versante orientale divenne proprietà della diocesi di San Marco, che ne conservò a lungo la titolarità e l'usufrutto con il nome di casale Opoli 3.

Pur non trovando espliciti riferimenti a proprietari o consorzi umani di alcun genere, possiamo ritenere il casale di Santa Venere obiettivamente abitato per i motivi sopradetti, mentre non abbiamo testimonianze di dipendenze amministrative, né di strutture di alcun genere che possano dirci chi fossero e da chi dipendessero. Ciò che li circonda sono terreni, boschi e vigne e all'interno del casale una chiesa, probabilmente di rito bizantino, anche in considerazione del fatto che essa veniva donata all'abbazia benedettina. Il fatto che non ci siano testimonianze di conflitti armati, né di incursioni, né di estorsioni riguardanti i luoghi più vicini a San Marco, fanno supporre che possa trattarsi proprio di una comunità religiosa che abbia accettato di buon grado la sua annessione in castello Sancti Marci da parte del duca normanno.

Potremmo andare più indietro nel tempo sulla base di documenti? Per quanto ne sappia direi di no, a meno che non troviamo ulteriori notizie sull'introduzione del culto di Santa Venere e sulla nascita di Santoboli. Ad un antistorico come me i nomi suggeriscono scenari impensabili, che tengo prudentemente celati per non incorrere nel discredito degli storici, e ancor più dei sostenitori del Guiscardo e di tutta la Santa Chiesa del suo tempo.

Nelle prossime puntate, sperando di essere ancora in vita, cercherò di spiegare perché i citati Praeceptum e Diploma sono delle falsificazioni.

San Marco Argentano, 5/1/2023

Paolo Chiaselotti

Nella foto in alto un particolare del rudere della chiesa nel casale di Santopoli.
Vedi anche la pagina dell'Antistoria La donazione di Roberto il Guiscardo

1 Iohannes Pungicaballo, Manso Cunposto (o Cunpus), papa Urso, Iohannes Dimidius monachus, Iohannes Maiomoni (o Mamonus), Iohannes de Presbita (o Presbitera), Nicola (o Nicholaus) suo fratello, Basilius Trestarenos (o Trestarinos), Niceta Magluus (o Maclita), Nicola (o Nicholaus) tabularius, Leo de Mantinia (o Matina), suo fratello Urso, Cristoforus, Thodorus, Iordanus, Michael, Petrus, Iohannes, Stefanus Banbaci (o Stephanus Bambace), Nicola Saci (o Nicholaus Sage), Ursinus Flos, Nicola (o Nicholaus) figlio di Mazarelli, Simeon (o Symeon), Iohannes presbitero, suo fratello (o figlio), Nicola (o Nicholaus) Scaranus, Petrus Gazanensis (o Gazarenus), Iohannes Brancella (o Braccella).

2 pro triginta solidis sckiphatis, lo schifato o scifato era una moneta bizantina cosiddetta per la sua forma concava

3 Relazione ad limina della diocesi di San Marco, 20 marzo 1590, del Vescovo Antonio Migliori, in "Il sinodo di Teodoro Fantoni Vescovo di San Marco" di Tonino Caruso, Gangemi editore, Roma, 2006, Appendice documentaria, pag.149.

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