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L'ANTISTORIA

ROBERTO IL GUISCARDO: L'ULTIMA CENA ...


supplizio Vi sono racconti che riguardano il nostro Guiscardo che sono quasi sconosciuti. Non parlo di cronache di second'ordine scritte chissà quando e chissà da chi, ma di brani tratti dalle Gesta di Ruggero e di Roberto scritte da Goffredo Malaterra o da altri noti cronisti del tempo.

Sento di dovervi dare anche in questo caso delle spiegazioni sulla scelta di episodi che possono destare solo curiosità, ma che di fatto non aggiungono nulla né cambiano la sostanza delle conoscenze che abbiamo intorno alla figura di Roberto il Guiscardo. Sta di fatto, però, che chi redigeva le cronache delle imprese compiute dal duca normanno, ritenne opportuno inserire nei dettagli anche vicende che potremmo definire minori.
Io mi illudo che lo facessero per lo stesso motivo per il quale oggi io cerco di interpretare il loro pensiero -e soprattutto il loro dannato linguaggio- per accontentare la curiosità di tanti lettori che si pascono, come me, delle briciole della storia.

Andiamo al "fatterello" di oggi, ovvero al racconto che il Malaterra ci fa nel secondo libro delle sue Gesta sulle discordie sorte tra il duca Roberto e il conte Ruggero suo fratello (di padre), nella parte riguardante la spartizione della Calabria. Intanto premetto che l'autore non cita mai i nomi dei due fratelli, ma li chiama sempre con l'appellativo di duca e di conte, tanto che, considerando la difficoltà (mia) di distinguere nella lettura del testo latino il soggetto che compie l'azione, più volte ho perso l'uno o l'altro dei fratelli nell'intricato gioco delle parti.
A leggere disinvoltamente il racconto del Malaterra pare quasi che i due fratelli giocassero alla guerra: non c'è brutalità, nè sangue, nè eccidi, ma solo strategie, erezione di macchine da guerra, accampamenti fuori le mura e via dicendo. Il gioco dell'oca appassionerebbe di più.

Ecco perchè l'antistorico va alla ricerca di quella parola che gli possa aprire un varco nelle vicende narrate, spiando attraverso il buco della serratura. Questa volta non parlo per metafora, nel senso che quel buco da me scovato è davvero tale e si tratta addirittura di uno sfintere anale!

Ecco che si risveglia l'istinto bestiale e la curiosità di sapere il come e il perchè, ma soprattutto di scoprire di quale fondo schiena si tratti. L'uomo non cambia, ahinoi, e secondo me Goffredo Malaterra sapeva benissimo quanto i bassi pruriti spingessero i lettori a scorrere pagine e pagine di storia alla ricerca di un abisso umano. Che cosa accadde e che cosa vide Roberto, prima di noi? Ve lo dico subito: la sua gentile anfitriona infilata da sotto a sopra, per chi conosce il latino, stipite ab ipso ano usque ad praecordia transfixa! Soddisfatta che ho la vostra morbosa curiosità potreste ben chiudere questa brutta pagina narrata dal Malaterra e dedicarvi a più proficue letture, ma so che non lo farete perchè mettere le dita nel costato appaga di più che non il rifiuto dell'altrui sofferenza.

E allora vediamo, in sintesi, come si svolsero i fatti.
Ruggero, proveniente da Mileto con cento cavalieri, è accolto nella città di Gerace. Roberto che lo teneva sotto assedio a Mileto, va su tutte le furie, si sposta a Gerace e la mette sotto assedio. Si rivolge ad un tal Basilio, nobile della città, perchè lo faccia entrare e, coperto da un cappuccio, entra nella sua casa, dove la moglie Melita lo intrattiene in garbata conversazione. Gli abitanti di Gerace, informati della presenza del duca, invadono la casa di Basilio, che cerca scampo nella chiesa. Qui viene trucidato, mentre la moglie viene sottoposta a quella morte infame di cui vi ho parlato (inhonesta morte vitam terminare cogeretur).

Il Malaterra non ci dice dove fosse in quel momento Ruggero, che pure era entrato a Gerace, nè tantomeno che egli o i suoi uomini abbiano partecipato a questa orribile azione, mentre ci dice che il duca Roberto (tenete però sempre presente che per tutto il libro II i loro nomi non compaiono mai) rimane immobile senza muovere un dito. Nell'assistere a questo e agli eccidi che seguono non c'è da meravigliarsi se egli abbia temuto per la sua vita, considerati anche i rapporti tra vittime e carnefici tutti concittadini, amici, conoscenti. Questo ci racconta il cronista, aggiungendo che quel fiero condottiero sta come il cavaliere inerme in mezzo ad una pioggia di dardi, altrove vincitore su migliaia di nemici, capace solo di trasformare la sua leonina ferocia in mansuetudine agnina (leoninam ferocitatem, quae quasi quodammodo sibi innata erat, in agninam transferens mansuetudinem ).

Immagino lo sconforto di coloro, me compreso, che hanno avuto sempre dinanzi agli occhi l'immagine di un Roberto vincente, impavido, capace di saltare sulla tavola, imbandita dalle gentili mani di Melita, e di sottrarre la sventurata a quella plebaglia di pavidissimi Calabresi con quattro fendenti!

E mentre siamo assaliti dallo sconforto, ecco che a ridarci speranza nelle virtù del duca interviene lo stesso Malaterra, dicendoci che il duca scompagina le fila degli avversari attirando a sé l'attenzione dei più moderati, di coloro cioè che cercavano di arginare il massacro. Li fa riflettere sull'esito di quell'azione forsennata con questo ragionamento: se prevale l'esagitato che si affida all'occasione, oggi gioite, ma domani potreste piangere, perchè l'occasione è in mano a Dio. Non sono entrato per aggredirvi, bensì perché invitato. Quale onore avreste nell'uccidere un uomo solo e quale utilità? Se pensate, uccidendomi, di sottomettere i miei uomini, vista la devozione verso di me, provochereste solo la loro vendetta senza mai pace. Tutti voi e i vostri discendenti in eterno sarete tacciati di infamia.

Questo è il senso del suo discorso, che non gli evita di essere imprigionato, ma in ogni caso gli salva la vita.

Se mettiamo da parte morbosità e passioni e riflettiamo sull'intera vicenda il Guiscardo ne esce come un abile stratega politico: introdottosi dove il fratello pensava di agire indisturbato, cerca complicità per contrastare i piani di lui e, guarda tu l'astuzia di quel malandrino, riesce a farsi liberare proprio dal fratello tra le suppliche dei suoi carcerieri di proteggerli dalla vendetta di quest'ultimo!

Mi sorge un dubbio. E se il Malaterra avesse inventato di sana pianta l'impalamento della povera Melita (guarda caso il nome femminile della città di Melitum), per costringerci a leggere fino in fondo tutta la storia?

Sapete, a volte penso: perché nessuno storico si è mai occupato di vicende come questa e come le altre che finora vi ho raccontato? Poi, ricordandomi che sono un antistorico, mi metto, con l'animo in pace, alla ricerca di altri episodi indegni.

Ad una prossima puntata.

San Marco Argentano, 9 marzo 2019

Paolo Chiaselotti


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