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L'ANTISTORIA


LA CARESTIA DEL 1058 IN CALABRIA.


PIETER BRUEGEL IL VECCHIO - IL TRIONFO DELLA MORTE, MUSEO DEL PRADO (particolare estratto da Wikipedia)

Nel capitolo XXVII del libro I delle Gesta di Ruggero e Roberto, Goffredo Malaterra narra la grave carestia che colpì la Calabria nel 1058. Certamente anche a San Marco si patì la fame, ma probabilmente in misura minore che altrove visto che gli altri due flagelli di cui parla il Malaterra, ovvero le incursioni dei Normanni e i combattimenti, non interessarono la nostra città. Nello stesso anno, come afferma il cronista, Roberto il Guiscardo ripudiò Alberada per sposare Sichelgaita e pur non vivendo più a San Marco, essendosi spostati i suoi interessi nell'anno precedente con la morte del fratello Umfredo, il castrum da lui fondato restava sotto il suo dominio. Tuttavia, stando alla cronaca del Malaterra, la mancanza di cibo e la fame dovettero opprimere in qualche modo anche i dominatori, visto che pure coloro che potevano disporre di denaro non trovavano nulla da comprare e a poco sarebbero servite eventuali incursioni per procacciarsi quel cibo che mancava ovunque. Ma quante e quali persone patirono la fame? Mancando il Guiscardo la gran parte dei suoi cavalieri si spostò con lui, quindi restarono pochi uomini, inclusi probabilmente quegli Sclavi che egli aveva promosso a rango di cavalieri, e un certo numero di religiosi e di laici legati ancora alla giurisdizione del vescovo di Malvito, i cui nomi incontreremo nei documenti delle Carte Latine. Certamente in un tale contesto, non essendoci state devastazioni, i tre mesi di carestia in attesa del nuovo raccolto dovettero lasciare poche tracce nel nostro territorio, che proprio per la sua condizione di non belligeranza con i centri vicini, riuscì a far fronte alla carestia con le proprie risorse in misura maggiore che altrove.
La descrizione del Malaterra della situazione verificatasi in tutta la Calabria nel corso di tre mesi è, tuttavia, interessante per gli effetti sociali e sanitari che ne conseguirono, sottolineati nei casi più estremi dalla completa disgregazione di affetti familiari e di princìpi morali. Ecco una lettura interpretativa del testo latino sotto riportato.
Nell'anno 1058 l'eccezionale calamità, autentica sferzata di collera divina provocata dai nostri peccati, da marzo a maggio stremò tutta la Calabria a tal punto che, di fronte non a uno -che già sarebbe bastato- ma a tre mali funesti che incombevano sugli abitanti, questi si illusero di poter evitare almeno qualcuna delle tre minacce che li tormentavano senza tregua contemporaneamente. Da un lato, infatti, infieriva il gladio normanno, che risparmiava pochissimi, dall'altro la fame che illanguidiva i già provati corpi e infine la morte nei combattimenti, terrificante minaccia, alla quale ben pochi scampavano, che si propagava senza freni come un incendio devastante in un arido canneto. Coloro che avevano soldi, non essendoci nulla da comprare, mandavano a servizio gli stessi figli, vittime innocenti, per pochi soldi, dato che non trovavano modo di spenderli per nutrirli. E, quasi su di essi si abbattesse un'ulteriore condanna, ad accrescere il dolore più che la perdita, era la vendita dei figli andata a vuoto. Molti erano debilitati a causa della dissenteria e alcuni per danni alla milza, causati dall'alimentazione solo con carni crude e senza pane.
L'indigenza fece venir meno la sacra osservanza della Quaresima, universalmente onorata dai santi e devoti padri, a tal punto che fu violata non solo l'alimentazione, in passato consentita, a base di latte o formaggio, ma anche di carne, pure da coloro che prima erano considerati di un certo rigore morale. La sterilità della terra aveva sterminato tutte le specie di ortaggi e di verdure commestibili e laddove se ne trovavano, avvizziti dalla brina prodotta dall'aria malsana, se ingeriti facevano più male che bene. Si tentava anche di ricavare dei pani, con l'aggiunta di un po' di miglio, dai carici dei fiumi, dalle cortecce di taluni alberi, assieme ai frutti di castagni, querce o lecci, le cosiddette ghiande, tolte ai maiali e macinate dopo l'essiccazione. Le radici crude, mangiate con l'aggiunta di sale, provocavano gonfiore del ventre, pallore del volto e compromettevano funzioni vitali. Le madri, che Dio abbia pietà, erano pronte a strappare con sfrontata violenza il cibo dalla bocca dei figli, piuttosto che darglielo. La gente, così, fu oppressa dal triplice flagello fino al nuovo raccolto; ma, se la fame fu in qualche modo superata, la spada della morte si fece più tagliente a raccolto compiuto. I corpi, esausti per la carestia e non avvezzi al cibo, più venivano nutriti in maniera smodata e inabituale, tanto più rischiavano di ammalarsi.


San Marco Argentano, 17 maggio 2025

Paolo Chiaselotti

1 https://www.thelatinlibrary.com/malaterra.html "De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis", Libro I, capitolo XXVII

CAPUT VICESIMUM SEPTIMUM. Fames in Calabria fit

Anno MLVIII clades permaxima et flagellum irae Dei, ut credimus, peccatis exigentibus, divinitus immissum, totam Calabriae provinciam, curriculo trium mensium, martii videlicet, aprilis et maii, in tantum attrivit, ut, trino morbo mortem sibi imminere cernentes, cum unum ad vitae periculum sufficere posset, vix aliquid quodvis horum, nedum tria simul furiosissime detonantia pericula, se evadere posse existimarent. Nam una ex parte gladius a Normannis, vix alicui parcens, desaeviebat; ex alia vero fames, viribus exhaustis, perlanguida aestuabat; tertia vero pugna mortalitatis, horribiliter defluens, vix aliquem intactum permittens evadere, ut in arenti arundineto laxis habenis furens incendium, percurrebat. Pecunias habentes, quid emerent non habentes, atque ipsos liberos, ex ingenuitate plorantes, vili pretio in servitium venundantes, dum, ubi illud ad victus utilitatem expenderetur, non inveniebant, ad augmentum doloris sui propter amissionem, incassa venditione liberorum, quasi quarta calamitate cruciabantur. Recentis carnis absque pane comestio, dyssenteriam faciens, multos deiciebat, quosdam autem spleniticos faciebat. Quadragesimae sanctam observantiam, a sanctis et religiosis patribus catholice contractam, angustia dissolvit, in tantum ut, non solum lactis vel casei verum etiam carnis comestione, reliquis temporibus concessa, etiam ab ipsis, qui alicuius honestatis antea videbantur, violaretur. Sic herbarum virentia olera, quibus pulmentaria fieri solent, terrae sterilitas substraxerat; ubi vero inveniebantur, quadam pruina vitiati aëris decocta, plus obesse quam prodesse, degustata, videbantur. Fluvialibus carectis et quarundam arborum corticibus cum castaneis et quercinis sive ilicinis nucibus, quas glandes dicimus, porcis substractis, et mola post exsiccationem tritis, panes facere, modico milii admixto, tentabant. Crudae radices, cum solo sale degustatae, ventris tumorem cum pallore vultus excitantes, vitalia intercludebant. Matres pietatis affectu ab ipso liberorum ore cibum rapere, potius quam administrare, impudenti violentia satagebant. Sic trino flagello usque ad novas fruges attriti sunt. Sed, novis frugibus supervenientibus, fames quidem propulsa est, gladius vero mortalitatis acutior factus est. Nam corpora, famis penuria vacuata et cibo insueta, quanto abundantiori cibo contra usum intemperanter reficiebantur, tanto citius periclitabantur.



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