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ROBERTO NELLA BATTAGLIA DI CIVITATE ![]() La torre di Civitate (foto Gennaro Meccariello 29 agosto 2023 https://www.worldhistory.org)
Ritengo che la battaglia di Civitate debba necessariamente rientrare tra gli argomenti dell'Antistoria,
perché noi sammarchesi reputiamo che l'intervento del nostro eroe, Roberto il Guiscardo, sia
stato decisivo per la vittoria dei Normanni sulle truppe pontificie.
La cronaca di quella battaglia, che segnò il riconoscimento del dominio normanno e il ruolo che essi avrebbero svolto in difesa della Chiesa, è stata narrata in esametri da Guglielmo di Puglia (detto anche Guglielmo il Pugliese o Apulo o Apuliense), nelle "Gesta Roberti Wiscardi". I fatti da me esposti e commentati sono tratti esclusivamente dalla pagina https://www.thelatinlibrary.com/williamapulia.html, il cui testo latino spero di aver correttamente interpretato.
Anche Guglielmo di Puglia, come il Malaterra, attribuisce alla 'gente apula', e in particolare all'ambiguità
di Argiro, la decisione di papa Leone IX di liberare l'Italia dai Normanni. Costoro, saputo che il pontefice stava preparando un poderoso esercito composto da popolazioni del Lazio, Alemanni e Teutoni, tentano una mediazione inviando alcuni ambasciatori a Roma con propositi conciliativi. Il cronista poeta, anche in questa occasione, attribuisce ad altri l'esito negativo della trattativa e precisamente agli alleati tedeschi, che avrebbero imposto a papa Leone IX di rifiutare la sottomissione dei Normanni, sostituendosi a lui nella risposta alla delegazione. Il tono e i modi degli alleati del Papa sono sprezzanti e imperativi, sia nei riguardi dei Normanni che del pontefice. Lo costringono a cessare ogni colloquio e gli impongono di allontanare tutti i Normanni dal suolo italico. Guglielmo di Puglia, vero o inventato che sia l'episodio, riporta le loro parole nella forma del discorso diretto, esprimendo, quindi, sulla presenza alemanna un giudizio pesantissimo, che di riflesso colpisce anche il papa. L'insuccesso della missione viene, poi, collegato ad uno svantaggioso periodo stagionale: le messi non erano state ancora raccolte e i Normanni furono costretti a nutrirsi di spighe abbrustolite al fuoco. Se tutto fa brodo, anche questo disagio serve a Guglielmo di Puglia per accusare gli alleati del papa di affamare coloro che si ribellavano al loro dominio. Lo storico poeta non nasconde la sua antipatia per il mondo germanico. Si capirà in seguito che le ripetute accuse verso la presenza tedesca serviranno al copione cavalleresco per giustificare la strage compiuta da Riccardo Drengot. E i nostri? Con nostri intendo i Normanni, confidando che nessun sammarchese tenga le parti del Papa, non fosse altro perché sulla carta intestata del Comune c'è il profilo del futuro duca e non quello del pontefice. Umfredo, essendo morto il fratello Drogone, si era fatto avanti in qualità di più alto rappresentante della nobiltà francigena. Roberto, che si era già guadagnato il soprannome di Guiscardo per l'affinità comportamentale con il mitico Ulisse, saputo che i Normanni si accingevano a sostenere una battaglia decisiva per la loro stessa esistenza, si presentò anch'egli all'appello. L'altro aspirante al comando, Riccardo Drengot, cognato di Roberto, eletto conte di Aversa, si impose con uno schieramento composto da suoi cittadini. Ai tre duci si unirono Pietro e Gualtiero d'Amico, Aureolano, Uberto, Rainaldo Mosca, il conte Ugo e il conte Gerardo, un prelato di Benevento (un altro prelato di Telese militava in campo nemico), Rodolfo conte di Boviano, tutti nomi a noi ignoti per la sofferta vicenda di riconoscere solo nel Guiscardo e nei Martiri la nostra discendenza spirituale. Stando al poeta, tremila cavalieri e pochi fanti riuscivano a stare al passo di questi valorosi, a causa di un triduo di digiuno involontario, dovuto alla mancanza di pane. Tutti aspiravano ad una morte gloriosa in combattimento, piuttosto che morire di fame (analogo argomento fu usato da Goffredo Malaterra in casa nostra quando Roberto spinse i suoi a procurarsi il cibo a rischio della vita). Arrivati a questo punto, o fame o guerra, come non parlar male del nemico, cioè dei soliti tedeschi, un ammasso di servi armati che si affida vanamente all'aiuto di un'inaffidabile accozzaglia di Longobardi (Gens Alemannorum stipata satellite multo, Longobardorum frustra confisa fugacis auxilio turbae)! Sapete che cosa pensavano i tedeschi nella loro proterva superiorità? che i nostri, i Normanni, piuttosto di soccombere gli avrebbero girato le spalle. Dice bene Guglielmo: la vittoria in guerra non dipende dal numero, dai cavalli, dalle persone, dalle armi, ma dal Cielo. E allora rechiamoci tutti a vedere i luoghi dove si svolse questo epico scontro e come andò a finire. Dobbiamo salire su una collina, quella che divideva gli opposti schieramenti. I nostri vi erano già saliti e avevano scoperto quali fossero gli schieramenti delle forze nemiche: Teutoni, Appuli, Balbensi, Campani, Marsicani, Tietensi, e con loro gli Svevi, circa settecento uomini, guidati dal tedesco Gualtiero e dal duca Alberto. Volete sapere come si comportavano gli Svevi in battaglia? Erano di animo feroce e preferivano morire combattendo piuttosto che darsi alla fuga. Sapevano usare benissimo le loro spade, lunghe e affilate, anche stando con i piedi a terra, ed erano capaci di raddoppiare il numero dei nemici spaccandoli in due dalla testa al tronco. Però avevano un difetto: non riuscivano a guidare bene il proprio cavallo a causa dell'uso disinvolto e smodato della spada! Motivo per cui, stando a cavallo, i colpi risultavano inefficaci. Dopo gli Svevi, in questa compagine allargata, ci sono ovviamente gli Italiani, guidati da Trasmondo e Attone, e con loro Malfredo di Campo Marino, Rofredo del castro di Gardia, suocero di Rodolfo Molinense. Né voi, né io e neppure Guglielmo di Puglia sappiamo chi siano gli altri, mentre solo Dio e Guglielmo sanno chi fossero quelli appena citati. Se pensate che la coalizione papale fosse composta solo dai predetti eserciti significa che non avete letto fino in fondo il poema di Guglielmo e, come sempre accade, vi siete affidati alle notizie riportate da altri. Ve lo dico io: avevano mandato aiuti anche i Romani, i Sanniti, i Capuani, gli Spoletini, i Sabini, i Firmani e, colmo dei colmi, finanche la città di Ancona, quella abitata dalla Gens Marchana, fex indegnissima che sosteneva i tedeschi per far dispetto al papa! Tutti erano appassionatamente uniti sulla riva del fiume Fertore (sic!) convinti di cancellare una volta per tutte il nome dei Franchi. Giusto per dare le esatte coordinate geografiche, Guglielmo ci informa che nei pressi c'era una città che prendeva il nome dai suoi cittadini (Proxima nomen habens erat urbs a civibus ipsis). Si trattava di Civitas (oggi Civitate) dove il papa ..., ma questo è di là da venire. Umfredo, Riccardo e Roberto si rendono conto che di fronte a tale esibizione di armati di ogni razza, debbono dividersi i compiti e ognuno di loro si sceglie il proprio avversario in base agli schieramenti in campo: il centro e le due ali. Riccardo, impaziente, rivolge il suo sguardo verso gli Italiani, ammucchiati alla rinfusa come carne da macello, e parte all'attacco, senza dare il tempo ad Umfredo di ricordargli che il suo obiettivo erano i Longobardi. Il conte di Aversa si lancia come un falco sulle colombe creando un fuggi fuggi generale e iniziando la caccia al singolo uomo, che il poeta apulo paragona all'impossibile scampo dello spaurito volatile spinto verso luoghi impervi. Forse l'intempestivo assalto di Riccardo allarma anzitempo gli Svevi, contro i quali si era proposto Umfredo. Partono i dardi da entrambe le parti finché si arriva allo scontro ravvicinato. Brutta cosa, sapendo ciò che son capaci di fare gli Svevi con le spade: teste e corpi di guerrieri e di cavalli spaccati in due come meloni! Il nostro Guiscardo, al quale era stato affidato il compito di intervenire in caso di bisogno, si precipita come un forsennato, con i suoi Calabresi, nella mischia. Lancia e spada, usate come lame rotanti con entrambe le mani, trafiggono e mozzano senza tregua. Viene disarcionato tre volte e tre volte rimonta a cavallo. Più cresce il pericolo e più cresce il suo furore. Gugliemo l'Apulo -come era prevedibile dal titolo del suo poema- si lascia trascinare nella foga e, con l'aiuto della metrica, equipara il Guiscardo al leone che assale ignari animali, addentando, lacerando e disperdendo brandelli dei loro corpi senza risparmiarne alcuno. Altrettanto fa il Guiscardo: a chi mozza un piede, a chi le mani, ora spacca testa e corpo, poi apre ventre e torace, ad altri squarcia il capo e trapassa il costato, senza distinzione tra omuncoli e giganti, convinto che spesso i piccoli sono i peggiori! Comunque sia, afferma il poeta, stando alla conta a fine partita, nessuno tra i combattenti dell'una e dell'altra parte menò tanti e tali colpi quanti ne aveva menati il Guiscardo. Una gran bella soddisfazione per noi sammarchesi, ma sta' a vedere se essi fossero stati decisivi per le sorti della battaglia! Guglielmo non lo dice, ma lo fa dire a Riccardo Drengot, che rientrato dalla strage compiuta sulle 'colombe' italiane, vedendo Umfredo e Roberto attaccati soprattutto dai dannati Teutoni si lascia andare a questa amara, ma inequivocabile, considerazione tattica: "Che dolore! Credevo di arrivare alla fine del combattimento, ma è la vittoria che non è ancora arrivata alla fine! A quanto pare il merito dell'esito positivo della battaglia spetterebbe ad Aversa e agli Aversani e non a San Marco e ai Calabresi, come abbiamo sempre detto, ripetuto e sperato. Infatti, Riccardo d'Aversa con i suoi uomini si lancia contro i nemici, li sbaraglia e li massacra. Di tanti guerrieri nessuno di loro sopravvisse (Acies praeclara Ricardi addita victoris, magnae fit causa ruinae hostibus, et miseri diversis interimuntur caedibus, et tanta superest de gente nec unus). L'esito della battaglia fu una disfatta per l'esercito del papa, per i propositi bellicosi e per la stessa dignità della Chiesa. Leone IX andò a rifugiarsi entro le mura di Civitate, ma venne cortesemente riaccompagnato alla porta centrale e consegnato ai Normanni, i quali, dice l'appulo Guglielmo, si inginocchiarono al suo cospetto, chiedendogli perdono. La sacra rappresentazione si conclude con la figura del papa che benignamente accoglie quei pentiti e tutti, nessuno escluso, gli baciano i piedi. Quindi dopo averli bonariamente rimproverati, li benedice con parole sante e, ripensando con dolore alle sue proposte di pace ignorate e disprezzate, prega con le lacrime agli occhi per i tanti fratelli defunti. San Marco Argentano, 26 marzo 2025 Paolo Chiaselotti |
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