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CARMEN TURANO


Carmen Turano Il dolore e la sofferenza sono condizioni umane che spaventano tutti. A volte diventano dei tabù. La morte di un figlio è uno dei tabù più innominabili della nostra società. È un'esperienza il cui solo pensiero fa rabbrividire, tanto che si preferisce rimuovere e, solo raramente, rientra nei nostri racconti quotidiani. L'atto di rimozione è, però, un esercizio che reca in sé una profonda ingiustizia nei confronti di chi viene a mancare. Se si riflette attentamente, il contraltare della morte è la vita, con le sue molteplici offerte. Calare un velo sulla morte di una persona giovane equivale molto spesso a sbiadirne i ricordi, fino a perdere le tracce di una memoria.

Ma un figlio è un figlio. E la sua morte è un evento tanto atroce quanto pervasivo, che muta in maniera definitiva la vita di un genitore. Il quale non sa e non vuole rimuoverne il ricordo. È inevitabile, comunque, che nel percorso luttuoso diventino necessari, per ragioni di mera sopravvivenza, un progressivo distacco e una razionalizzazione degli eventi. Se non altro per tenere a bada la follia, che è sempre in agguato. Col tempo, poi, la mappa dei ricordi si alimenta di momenti, di aneddoti, di istantanee che rendono meno devastante il lutto. Testimonianze di un regalo di cui si è beneficiati. Sia pure per un tempo ingiustamente breve. Ecco allora che il ricordo di quella vita e di quell'amore può essere condiviso e raccontato, e diventare patrimonio di una comunità.

Carmen era una bambina di tre anni. Che dire di una bambina di tre anni oltre che era bella e dolce e vispa e paffuta come milioni di suoi coetanei? E che viveva in una rassicurante e ovattata simbiosi con la sua mamma? E che aspettava con ansia, ogni sera, l'arrivo carico di promesse del suo papà? E che aveva già iniziato quel naturale meraviglioso percorso di scoperta del mondo? E che ogni giorno inondava, con i suoi infiniti "perché", genitori, nonni e quanti le stavano vicini? Era tutte queste e tante altre meravigliose peculiarità che fanno dell'infanzia un momento magico. Era il primo regalo che era giunto ai suoi giovani genitori nel luglio del 1985.

La sua mamma, Pina Quintieri, è una mia carissima amica. Insieme abbiamo condiviso i lunghi anni della scuola, dall'asilo al liceo. La nostra era - ed è tuttora - un'amicizia fondata su un equilibrio di affinità e divergenze che ha sempre rappresentato per entrambe una fonte di sicurezza. Avevamo interminabili liste di progetti. Eravamo avide di conoscenze e di emozioni e, forti di quel senso di onnipotenza proprio di chi è ancora tanto giovane, pianificavamo il nostro futuro. I nostri erano dei progetti, per così dire, "normali", non dissimili, cioè, da quelli di tante altre adolescenti come noi. Una laurea, un lavoro, una famiglia, dei figli. Emanciparci per noi significava completare un percorso lineare e fluido che, almeno fino alla maturità classica, si era rivelato agevole.

Ci laureammo più o meno contemporaneamente e quasi contemporaneamente entrammo nel mondo del lavoro. Pina si sposò qualche anno prima di me e, come ho già scritto, nel 1985 diventò mamma. Quest'evento - come accade ad ogni donna che inizia il percorso della maternità - cambiò la sua vita, provocandole un vero e proprio tsunami. Attraverso lei, cominciai a percepire - senza tuttavia capirci molto - questa condizione miracolosa. Anzi, devo dire, che i primi rudimenti del mestiere di genitore li ricevetti proprio da Pina, malgrado fossi ancora piuttosto indifferente alla prima infanzia. Carmen, sua figlia, fu, comunque, per me, una folgorazione. Fu quell'eccezione che confermava la regola. Non lo dico per convenienza, solo perché le circostanze me lo impongono. Era una bimba davvero speciale che riusciva a far breccia anche nell'indifferenza di chi, come me, si sentiva ancora profondamente figlia. Non ebbi la fortuna di frequentarla a lungo perché non abitavo più a S. Marco e venivo solo di tanto in tanto, ma la sua spigliatezza, la sua precocità, la sua capacità comunicativa, la sua voracità nei confronti del mondo mi colpirono enormemente. E mi conquistarono subito.

A distanza di anni ho un ricordo molto nitido di quelle che furono le mie impressioni di allora. Non mi trovavo di fronte a una bambina leziosa, un po' bamboleggiante e - come capita spesso ai figli unici - tiranna e dispotica nei confronti degli adulti. Ancorché vivace e curiosa, era ubbidiente e si adattava ad ogni proposta. Non per muta acquiescenza ma perché si fidava delle persone a lei più vicine. Certo, era pur sempre una cucciola di tre anni abituata a consegnarsi a figure significative che si prendevano cura di lei. Non era però prepotente.

Se le cose stavano così, il merito era soprattutto dei genitori. Questa sua grande capacità di adattamento, tuttavia, me la rendeva ancora più simpatica. E con lei riuscivo a divertirmi. Aveva un'intelligenza curiosa e dinamica e tale abilità di "zampettare" da un gioco all'altro e da una situazione all'altra era il sintomo di spiccate capacità cognitive. Naturalmente, data l'età, non era capace di compiere delle astrazioni, ma quelle sarebbero presto venute e avrebbero arricchito pieno piano il suo patrimonio intellettuale che si annunciava già interessante. Che dire? Forse c'era in me la deformazione dell'insegnante, pronta a individuare, nei soggetti in crescita, i germi del successo. È probabile che la guardassi anche con questi occhi. Ma Carmen arrivava, con la sua forza, come un proiettile al cuore. E, nel giro di poco tempo, mi conquistò.

In questa mia intesa con lei giocò un ruolo di rilievo il rapporto che avevo con la madre. Carmen sentiva che di me poteva fidarsi perché percepiva lo slancio affettivo che Pina mi dedicava. Inoltre, sentiva come una componente a suo favore il mio non essere ancora mamma. Ero abbastanza adulta per poter improvvisare quei giochi che l'avrebbero divertita, ma il non avere figli a seguito comportava due enormi vantaggi. Il primo, l'assenza di concorrenza. Il secondo, una condizione di bambina che la mancanza di prole automaticamente mi conferiva ai suoi occhi. Ora, non voglio generalizzare e perdermi in teorie impegnative circa le capacità percettive dei bambini. Carmen, però, sono certa, coglieva in me (che non ero mai stata interessata ai bambini, se non per motivi di lavoro) qualcosa di infantile che conteneva promesse di gioco, diciamo, tra pari. O quasi. Per questo motivo mi cercava e mi aspettava con ansia. Aveva imparato a riconoscere la mia macchina. Ne individuava il rombo già da molto lontano e mi annunciava, esultante, alla madre, ancor prima che questa si rendesse conto della mia presenza.

Era spigliata ma sapeva essere taciturna. Osservava con naturale curiosità tutto ciò che la circondava ed era attenta al nuovo. Mi scrutava con i suoi occhioni, due grandi olive nere che splendevano come due soli e parlavano senza parole. Quando arrivavo a casa sua mi prendeva per mano e mi portava nell'angolo magico dei suoi tesori. Tra questi, in particolare, ricordo un salvadanaio di ceramica, rappresentante lo zio Paperone di Walt Disney, che custodiva molto gelosamente perché era il forziere dei suoi soldini. Un gioco che le piaceva fare con me era il "volo". "Facciamo il solletico alle nuvole" mi diceva per invitarmi a sollevarla in alto. Era questo un gesto che, come molti bambini, trovava divertente. Io leggo, oggi come allora, in questo suo slancio verso l'alto, una gran voglia di volare. Che significa afferrare con l'anima e il corpo la forza della vita. La sua energia era tale che stuzzicava la mia fantasia che, in fatto di giochi con bambini, era piuttosto a digiuno ed era rimasta a lungo sopita. E scoprivo, sorprendendomi, che il gioco divertiva anche me.

E ancora. Era ricettiva e intelligente. Imparava con sorprendente facilità canzoni e filastrocche (qualcuna devo avergliela insegnata anch'io) e il massimo del piacere era recitarle e cantarle con altri bambini. In particolare con la sua cuginetta quasi coetanea, Anna Rita. Da quel poco che potei vedere, mi era sembrato che tra loro ci fosse un rapporto privilegiato. Allo stesso modo cercava gli altri suoi cugini che, in quel periodo, da una parte e dall'altra della famiglia, nascevano con feconda generosità.

Carmen Turano Ma il ricordo più struggente e intenso che serbo di questa bimba è il senso di abbandono con cui si consegnava alla sua mamma. Conservo dei fotogrammi (che per tanto tempo avevo rimosso) in cui le vedo avviluppate in quell'intimità esclusiva, che rende tanto forti quanto fragili le donne che hanno il privilegio della maternità. Forti per il miracolo che si rinnova ogni volta che quell'essere, ormai altro e nello stesso tempo uno con la propria mamma, richiede prepotentemente a quest'ultima la sua presenza. Fragili per quel fastidioso senso di precarietà che avvolge le esperienze magiche. Carmen era tanto bella da sembrare finta, tanto morbida e tenera da sembrare una bambola, tanto delicata da sembrare di vetro, tanto affettuosa e dipendente da indurre costantemente la sua mamma a preservarla, con carezze e baci, da ogni potenziale minaccia. Ho un'immagine di lei, dopo il bagnetto, con ciuccio e accappatoio, paga di coccole e di acqua, fragrante di bagnoschiuma e borotalco, pronta per l'abbraccio della notte e della mamma, sulla cui spalla appoggiava, in totale abbandono, la testolina riccioluta.

La morte arrivò quasi all'improvviso e svuotò con la sua gelata potenza i genitori. Annientandoli. Annichilendoli. La malattia fu brevissima, tanto che non ebbero il tempo di capire, di ipotizzare, di sperare. Diagnosi e prognosi arrivarono crudeli e certe. E spietatamente attendibili. L'ultimo viaggio disperato della speranza a Roma. Il ritorno a casa. I funerali, il dolore dei parenti, la confusione, l'incredulità. La rabbia, l'apatia, l'anticamera della pazzia. Infine il silenzio. La ricerca del silenzio, ma anche il silenzio degli altri, che non è paura del contagio, né vigliaccheria. È il tabù che non si riesce ad infrangere. L'orrore della normalità di quell'esperienza innominabile che può toccare a chiunque. L'orrore della morte che ha corteggiato e rapito una bambina che tutti conoscevano. "Ma come? Si guarisce dalle malattie più incurabili, una bimba… nel fiore degli anni… tutta la vita davanti…. non è possibile. Non ci posso pensare. Non ci voglio pensare". Erano questi i sentimenti che assillavano tutti noi che non riuscivamo, non volevamo pensare alla disperazione dei genitori. Ed eravamo impotenti di fronte all'immensità della sofferenza. Forse perché la nostra società, fatta di figli unici e di pianificazioni familiari, fatta di frizzi e lazzi e priva della cognizione del dolore, è impreparata alla morte. E non è capace di stringersi intorno al lutto, di capirlo, di elaborarlo. Lo evita, piuttosto.

Un anno prima, luglio1987, avevo partecipato alla festa di compleanno di Carmen. Una festa piena di gente, piena di cibo, piena di voci e di allegria. L'anno dopo, luglio 1988, Carmen moriva, e Pina, che aveva condiviso con altri, appena dodici mesi prima, tanta gioia, non riusciva a condividere con nessuno quel dolore esagerato. Perché non c'erano parole, non esisteva la speranza del conforto, perché non si era preparati a stare vicini a chi subisce un lutto tanto irreparabile. La sua casa restò vuota, venne chiusa e lei si rifugiò, insieme con il marito, presso il calore dei suoi genitori e della professoressa Ada Richetti che seppe confortarla con le sue parole.

La vita comunque, presto o tardi ritorna a bussare e a dare corpo alla sua voce. Non prescinde da un evento così innaturale e, alla luce di questo, impone nuove prospettive. Ma presto o tardi si fa sentire. Pina e suo marito compresero ancora meglio di altri quello che con una formula un po' inflazionata definiremmo "il senso della vita". Capirono il dono che la breve esistenza di Carmen aveva fatto loro. Un dono che era stato distrutto da una malattia feroce, ma un dono unico e insostituibile. Scelsero la vita. E con questo spirito, pur convivendo ancora con la morte, nel grembo di Pina cresceva un'altra vita. Dopo un anno nasceva un bimbo, che non era un surrogato di Carmen, non era il supplente di quella bimba cui era stato negato il futuro. Non sarebbe stato giusto né per la prima né per il secondo. Era semplicemente una nuova vita. Le porte della casa si riaprivano. Con fatica, ma si riaprivano.

Solo ora, dopo più di vent'anni, Pina ed io riusciamo a parlare di Carmen. Parliamo tanto della sua vita. Poco della sua morte. Ma finalmente ne parliamo. A volte commentiamo libri o film che hanno affrontato questo difficile tema. Non certo per esercizio accademico, ma per comprendere, anche attraverso la finzione letteraria o cinematografica, come si affronta il dolore. Pina mi ha confessato di aver capito a sue spese che il dolore degli altri, così come il proprio, insegna a vivere. Ha imparato così, con mesta allegria e con un sorriso lieve che non ha nulla di amaro, a ricordare la propria bambina. Il dolore è ancora presente ma è stato addomesticato. Non mancano momenti di profonda tristezza quando pensa alla donna che Carmen sarebbe oggi, a 27 anni. Quando pensa alla complicità che si sarebbe instaurata con lei e ai conflitti madre-figlia mai vissuti. E alla naturale separazione che sarebbe avvenuta prima o poi. Alla vita che si è fermata, mentre altre hanno continuato a fare il proprio corso. Anche l'attitudine a questo umano confronto è stata superata. E Pina, attraverso un dolore dichiarato ma non urlato, ha imparato ad affrontare la vita. E ha imparato, insegnandolo ai figli e a quanti le vogliono bene (me compresa), che l'infelicità, la malattia, la morte, il dolore non sono un imprevisto, un'eccezione, un capriccio del destino, ma rappresentano la vita stessa. Il tabù finalmente è stato infranto.

Ancora un ricordo. Carmen con addosso un vestitino di lana, orlato da vistosi polsini e da un grosso bavero di cotone: un batuffolo rosa che si aggira felice in una casa tempestata di luci e di fiocchi rossi. Una casa che sa di Natale. Lo sguardo assorto nei regali e l'immancabile fiore tra i capelli. Ultima luminosa immagine che sono riuscita a trattenere.

Annalisa Martino

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