Home
COME IN UN FILM



Non si sa mai cosa dire alla fine di un film che ci ha tenuto avvinti per tutta la sua durata. Mio padre, taciturno per natura e restio a manifestare ogni emozione, si alzò dalla sedia e andò diritto a spegnere il televisore. Io, imbarazzato e a disagio, tenevo lo sguardo fisso sul piccolo punto luminoso che accompagnava l'oscuramento dello schermo, fin quando in esso apparve come in un negativo il riflesso della stanza.
Avrei voluto dire qualcosa di diverso da quello che dissi, o mi sarei potuto semplicemente alzare e andare a letto, ma lo spegnimento improvviso del televisore, non seguito da alcuna parola, provocò in me una reazione del tutto inaspettata.
Certamente l'inquietudine che il film mi aveva trasmesso fu acuita da quel gesto imprevisto di mio padre, che di solito andava a coricarsi con un accenno di buonanotte, lasciando il televisore acceso. La televisione non è un cinema o un teatro, dove a fine spettacolo te ne esci e fino al rientro a casa hai tutto il tempo per reinserirti poco per volta nella realtà.
Avrei voluto gridargli: "Riaccendi quel dannato televisore!" e tutta questa storia non sarebbe mai venuta fuori, ma avevo solo sedici anni e la presunzione di essere già adulto mi fece fare la cosa sbagliata.
Non osavo parlare dell'argomento del film, una violenza sessuale su una donna che subì l'onta come una colpa. Ero combattuto tra le contrastanti sensazioni e i sentimenti che il film mi aveva procurato, e sentivo crescere dentro di me un senso di ribellione verso il gesto brusco compiuto da mio padre. Forse era la reazione inconscia al turbamento generato dalla visione del film: disprezzavo l'uomo che aveva compiuto la violenza, ma nello stesso tempo ero attratto dalle forme della donna che mi appariva così selvaggiamente appagante per la sua forzata nudità. Dissi senza pensarci una cosa priva di senso logico, con il solo scopo di ferire mio padre.
«Comandi tutto tu in questa casa, come …» e feci il nome del personaggio che nel film interpretava la parte dello stupratore. Mio padre non si alterò, forse pensando che non avessi ben capito che cosa fosse uno stupro. Mi guardò alcuni secondi che mi sembrarono un tempo infinito, poi con calma disse: «Sei troppo giovane per parlare di cose che non sai».
Avrei voluto replicargli che ne sapevo più di lui, che avevo visto altri film, che avevo letto libri dove c'erano gli atti sessuali. E solo per timore di future proibizioni tenni fuori il nome di una mia compagna con cui giocavamo a fare l'amore. Dissi invece che l'uomo che l'aveva sposata, alla fine del film, era un bel cornuto! Lo dissi senza riflettere e senza convinzione, solo per accrescere l'insolenza come segno di sfida. Peggiorai le cose addentrandomi confusamente in un'analisi del film, per la sola parte riguardante lo stupro e, sapendo di mentire sui miei reali sentimenti, con rabbia e risentimento crescenti aggiunsi che le donne facevano finta di non volerlo, ma in fondo erano tutte puttane!
Mio padre, che di solito adottava metodi educativi alquanto spicci, quella volta usò un tono di voce quasi dimesso per spiegarmi che non avevo capito il significato del film, la sofferenza della donna e la capacità dell'uomo che l'aveva sposata di superare i pregiudizi che volevano sempre e solo la donna come unica colpevole. Mentre parlava mi rendevo conto che stava dicendo quello che pensavo anch'io, ma non volevo dargliela vinta.
Volevo continuare a scontrarmi con lui manifestando concetti sempre più contorti con tono provocatorio, e dissi non so quali e quante altre sciocchezze, senza fermarmi e senza freno alcuno, finché mio padre non mi interruppe esclamando: «E se l'uomo che ha sposato quella donna, fossi io, tuo padre?»
Aggiunse un rapido e sbiascicato «bo'a'otte» e andò a letto.
Rimasi ammutolito. Non più ferito, né adirato, ché la rabbia mi era svanita del tutto. Ripetei tra me ciò che avevo distintamente sentito: «E se l'uomo che ha sposato quella donna, fossi io, tuo padre?»
Mio padre aveva fatto un esempio. Certo era così, ma il tono e il fatto che mi avesse lasciato improvvisamente da solo, quasi a volermi far riflettere sulle sue parole, mi aprivano lentamente il dubbio che avesse sposato realmente una donna che era stata violentata. Ma quando? Prima di sposarsi con mia madre?
Cercai di calcolare rapidamente quanti anni avesse quando si era sposato. Sì, certamente, poteva aver sposato in precedenza un'altra donna. E dov'era finita? Era morta senz'altro. Strano che non me ne avessero mai parlato. Certo, se c'era dietro un fatto così sconvolgente, era difficile che ne parlassero in casa.
Ripetei nuovamente tra me le sue parole, questa volta quasi facendone uscire il suono dalle labbra, per convincermi di averle ascoltate. Mi venne il dubbio che mio padre potesse essere lo stupratore, ma no, non era possibile, perché l'uomo del film che aveva sposato la donna non era il violentatore, ma un'altra persona.
E mia madre? Neppure lei aveva mai accennato a questa storia. Avrei potuto chiederglielo. Lei il film non lo aveva visto, stava cucinando. Forse aveva udito le mie parole, perché avevo alzato la voce; anche con la porta chiusa probabilmente mi aveva sentito.
Aprii la porta e la richiusi senza far rumore: non volevo che mio padre sopraggiungesse mentre stavo parlando con mamma.
Mia madre mi chiese perché gridavo, segno che non aveva sentito nulla della discussione tra mio padre e me. Le chiesi senza aggiungere altro se papà era vedovo quando si erano sposati. Mia madre scoppiò a ridere e continuando a rimestare le patate nella pentola disse: «Forse ci vuole diventare adesso per sposarsi con una polentona che sa cucinare meglio di me!»
«Sei proprio sicura?» ripetei per togliermi ogni dubbio. E lei: «A meno che non me l'ha tenuto nascosto per tutti questi anni … »
Poi aggiunse sottovoce, sapendo che papà andava a letto presto la sera: «Quando sono venuta qui dalla Calabria io e papà ci siamo raccontati tutta la nostra vita!»
«E allora perché mi ha detto che lui ha sposato …» insistetti io cercando di trovare le parole adatte.
Incrociai lo sguardo di mia madre che non sorrideva più e non finii di dire ciò che mio padre aveva detto. Tenendo tra le mani la pentola che aveva appena tolto dal fuoco, mi guardava aspettando che completassi la frase.
«Che lui ha sposato … ?» ripetè lei sollecitando una mia risposta «Chi ha sposato?»
La guardai dritto negli occhi, poi abbassai lo sguardo e il viso, quasi a voler mascherare un'aria divertita e dissi con il tono di chi ha fatto uno scherzo: «Ma no che non è vero. Ti stavo raccontando un film che ho visto stasera!»
Passarono giorni, mesi, anni, e con il tempo la curiosità di scoprire la verità su ciò che era accaduto scomparve del tutto, ma non l'immagine di quella donna scoperta che subiva una violenza. Nel ricordo di quella scena al volto dell'attrice si sovrapponeva il viso di mia madre, con l'espressione che aveva in attesa della conclusione della mia domanda, mentre si riaffacciavano alla mente le parole di mio padre: «E se l'uomo che ha sposato quella donna, fossi io, tuo padre?»
Non volevo ammettere che la donna violentata fosse mia madre, anche perché l'accostamento del suo corpo a quello della protagonista del film mi provocava un disagio enorme, aggravando il senso di colpa per le parole che avevo detto quella sera in preda all'ira.
E così rimuovevo immediatamente quei ricordi quasi a volerne cancellare ogni traccia. Non mi importava più di sapere se mia madre fosse stata violentata e parlarne sarebbe stata una seconda violenza. La prima era stata senz'altro sepolta dall'affetto che mio padre ebbe per lei fino alla morte. Un affetto delicato, fatto di piccole attenzioni, affettuosità furtive e atti di dedizione in cui il suo orgoglio maschile e le sue convinzioni esistenziali finivano per lasciare il posto alla caparbietà di mia madre.
È difficile, tuttavia, rimuovere ciò che la coscienza vuole accantonare e così capitava che ogni qualvolta ascoltassi la notizia di uno stupro, i primi ricordi che si risvegliavano erano quelli che riguardavano la mia famiglia. Se ero alla presenza dei miei genitori, con una scusa mi allontanavo, oppure ostentavo un assoluto disinteresse per l'argomento. Coglievo, o mi sembrava di cogliere, soltanto quello sguardo interrogativo di mia madre di alcuni anni prima.
Era quasi assente, perso nel vuoto, incomunicabile. Lo stesso mi parve di vederlo nei suoi occhi quando mio fratello le disse che voleva portare a casa la sua ragazza, per fargliela conoscere. Gli occhi di mia madre erano sorridenti, neri e brillanti di luce, poi improvvisamente, quando mio fratello le disse il nome della fidanzata, lo sguardo si gelò, come se mia madre avesse perso di colpo ogni interesse per ciò che fino ad un istante prima l'aveva rallegrata. Rimase così per qualche minuto, mentre mio fratello continuava a parlarle della ragazza, dei genitori, dell'intenzione di fidanzarsi e di sposarla.
Pensai che quell'improvviso cambio di umore, ma più ancora di attenzione, fosse dovuto a ricordi che si risvegliavano in lei. Quali? E lo stupro mi tornò alla mente con tutta la sua forza lacerante, anche se non riuscivo a cogliere alcun nesso tra quanto stava accadendo ora e l'episodio del film. Anche se sospettavo che potesse esserci qualcosa che riguardava la vita di mia madre, nelle parole di mio fratello non riuscivo a cogliere nulla che potesse averla turbata. O almeno così pensavo, ignaro che il futuro mi avrebbe fatto conoscere una storia che non avrei neppure lontanamente immaginato.

Mi sposai prima io di mio fratello, che si sposò qualche anno più tardi, e così potei avere il piccolo primato di aver dato ai miei genitori il loro primo nipote. Dopo circa tre anni, mio fratello e mia cognata annunciarono anche loro l'attesa di una bambina.
Non nacque mai perché la sua vita si era spenta un istante prima di vedere la luce.
Non ebbi modo di poter consolare i suoi genitori, nč di parlarne con papā e mamma, perché eravamo lontani gli uni dagli altri. Mi sovvenne, non so perché, quell'espressione di sconforto che avevo visto in due occasioni negli occhi di mia madre. Nell'immagine che focalizzavo con brevi flash mi appariva con lo stesso sguardo che avevo scorto la sera in cui volevo chiederle chi fosse la donna violentata che mio padre aveva sposato. Poi quello sguardo smarrito e assente lasciava il posto ai suoi occhi neri, belli, profondi e tristi.
La lontananza accresceva il bisogno di affetto, che ognuno di noi riversava su chi gli stava accanto, in misura senz'altro maggiore di quanto poteva capitare alle famiglie che avevano l'occasione e l'opportunità di vivere unite. Ma ogni evento felice diventava ancor più gradito a chi stava lontano e così la nascita di altri nipoti, la loro crescita, il matrimonio di un terzo fratello, anch'egli lontano, resero i "nonni" sempre più uniti nei ricordi e nell'attesa di vedere ora uno ora l'altro dei figli con le rispettive famiglie.
Purtroppo quando avvengono le tragedie non hanno ambasciatori e tantomeno lanciano messaggi premonitori. Succedono, così, salvo poi a soffrirne con maggior dolore entità e conseguenze. A distanza di anni una giovane moglie e madre finì la sua vita, un padre se ne andò per sempre fumando il suo ultimo sigaro nel grigiore della nebbia, nostra madre morì quasi demente. Nulla di eccezionale e di tragico, se non per i diretti protagonisti di questo colossal sulla vita, ripresi da vicino in mezzo a miliardi di comparse.
La storia potrebbe finire qui, ma a deciderlo a volte siamo noi, altre volte è il caso che aleatoriamente stabilisce quando e dove una storia finisce e un'altra ha inizio.
Il lettore che ha avuto l'interesse, la pazienza o la curiosità di leggere fin qui il racconto si chiederà se ora gli sarà disvelato un qualche segreto legato alla premessa; se quello stupro ci fu davvero o se fu solo l'ossessione di una vita.
Lo sguardo e il sorriso di mia madre sono le cose più belle che mi restano di lei, assieme alla figura di mio padre che le sta accanto guardandola e tenendole una mano. È una foto molto piccola, un po' sfocata. Ce n'è un'altra con mio padre in piedi e lei seduta, scattata nei giorni seguenti il loro matrimonio. Gli occhi neri e profondi di mia madre comunicano molto di più di quelli chiari di mio padre. Quale di queste foto avreste messo sulla lapide? Ne scelsi una in cui dimostrava un'età più prossima alla data della sua morte. Sorridente, ma quasi anonima, con gli occhiali da vista. Una mamma come tante. «Posso sempre cambiarla» pensai quando ordinai la lapide, e mi preoccupai che le date di nascita e di morte non contenessero errori. Mi recai all'ufficio anagrafe per chiedere un certificato. Nella ricerca spuntò fuori il nome di una bambina nata da mia madre. «È una sua parente?» mi chiese l'impiegato. Mi sovvenne mio fratello che annunciava il fidanzamento a nostra madre e lo sguardo di lei nel sentire il nome della ragazza. Lo stesso nome: era nata alcuni anni prima del matrimonio dei miei genitori e morta poco dopo.
«» risposi senza pensarci neppure per un istante «era mia sorella».

N.M.
Up
LA STORIA LE STORIE

RACCONTA LA TUA STORIA
info@lastorialestorie.it