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GIUSEPPE LUCINO


Giuseppe Lucino Era il 15 febbraio del 1959, avevo 24 anni, davanti a me si aprivano due strade: qualche giornata di lavoro malpagata oppure espatriare. Scelsi la seconda. Un amico emigrato in Svizzera mi propose di andare a lavorare in un'azienda agricola vicino Lucerna. Non ci pensai su un istante. Il giorno dopo ero già alla stazione di Paola, assieme ad un cugino, una valigia con le poche cose che avevo e il biglietto di terza classe.
Tutto mi sembrava estraneo e talvolta anche ostile, visto che non sapevo una sola parola di tedesco. Non mi persi d'animo: i primi giorni mi facevo capire con i gesti e per il resto chiedevo aiuto ai compagni di lavoro giunti prima di me. Il lavoro era davvero duro; per capirci era lo stesso che oggi svolgono gli indiani nelle varie aziende del nord: pulire le stalle e badare agli animali. Erano stalle con centinaia di capi di bestiame, ma non mi scoraggiai, anzi mentre mio cugino dopo due settimane decise di andarsene, io continuai convinto che le mie fatiche sarebbero servite a darmi un futuro migliore.
Quel futuro migliore si affacciò quando riuscii ad avere un contratto di lavoro in una fabbrica tessile, la Maschinenfabrik Rieter Ag, a Winterthur nel canton Zurigo. Iniziai come semplice manovale, e gradatamente svolsi lavori sempre più impegnativi e di responsabilità. I primi anni furono duri, sia per il lavoro, ma soprattutto per la diffidenza della popolazione locale nei confronti degli immigrati italiani. Nel 1951 avevo già formato la mia famiglia; dopo alcuni anni con la nascita dei tre figli, due femmine e un maschio, eravamo in cinque. Ciò mi spinse a lavorare con maggior lena e a sopportare disagi, privazioni e qualche umiliazione. Testardo e intraprendente non mi sono mai perso d'animo, convinto che un giorno sarei ritornato nel mio paese per trascorrere lì la mia vita.
I figli, però, avevano intrapreso studi e attività che li rendevano autonomi e ben integrati. Il maschio, Vincenzo, morì nel fiore degli anni, improvvisamente, nel 1985, quando cominciavamo a vedere i frutti di un lavoro onesto e ostinato.
Quando si parla delle rimesse degli emigrati che hanno contribuito a rendere più ricca e prospera quella Calabria che io avevo lasciato nella miseria, si dice una grande verità. Nel mio caso venivo personalmente in Calabria e ogni volta investivo i miei modesti risparmi acquistando un pezzetto di terra, un fabbricato o costruendo un edificio. Acquistavo, poi vendevo poi ricostruivo altrove, sempre con la prospettiva che un giorno avrei trascorso nel mio paese il resto della mia vita. A pensarci ora, posso ben dire che vari operai, professionisti e imprenditori, con le rispettive famiglie, hanno beneficiato dei miei continui investimenti. Avrei potuto spendere i miei guadagni altrove, o sperperarli, ma l'amore per la mia terra, devo dire mal ricambiato, mi ha sempre spinto a spenderli qui, a San Marco Argentano, dove sono nato. In Svizzera molti mi chiedevano perché una terra così ricca di tante risorse e bellezze naturali come la Calabria non offriva la possibilità di lavoro ai suoi emigrati: non sapevo cosa rispondere. Ora forse saprei spiegarlo, e me lo spiego anch'io, vedendo tanti sprechi, abusi e ingiustizie sociali. Comunque, posso ben dire, di aver fatto il mio "dovere" di buon cittadino calabrese, che ha conosciuto stenti, fame e miseria e di essi ha saputo farne tesoro.


L'intervista finisce qui: una forte stretta di mano, un sorriso appena abbozzato e sul volto dai tratti decisi uno sguardo pieno di orgoglio.

Esperienza di vita trascritta da Paolo Chiaselotti

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