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IL GIORNO DEL RICORDO

I TITINI ENTRANO A TRIESTE

Truppe di Tito da Wikipedia Per l'occasione del Giorno del Ricordo voglio raccontare un episodio che avvenne nella città in cui sono nato, Trieste, il 1° maggio del 1945.
Non avevo neppure cinque anni, ma l'intensità degli avvenimenti e la loro rapida successione mi hanno lasciato ricordi sbiaditi ma paragonabili a istantanee indelebili. La concitazione delle voci, le azioni messe in atto da chi diventava, suo malgrado, protagonista di quei giorni, che oggi definisco tragici, tutto ciò che accadeva a quel tempo intorno a me mi appariva ora un gioco, ora una novità, ora una curiosità che attiravano la mia attenzione.
Stare immobili per un tempo, che oggi definirei lungo, con la schiena e le mani attaccate al muro di casa -un appartamento al quinto piano- durante i bombardamenti alleati, era un gioco, inventato ed imposto dagli adulti quando non riuscivano a raggiungere il rifugio sotto casa o la galleria di piazzetta Belvedere. Oggi capisco il significato di quel gioco: se una bomba avesse colpito la casa si sarebbe aperto un abisso sotto i nostri piedi e forse ci saremmo salvati restando immobili sulle teste delle travi in bilico su un baratro!
Se oggi sono qui a raccontarvelo significa che fortunatamente la nostra casa non fu mai colpita. E quando riuscivamo a raggiungere il rifugio, io in braccio a mia madre e mio fratello in braccio a mio padre, eravamo cavalieri in groppa a due cavalli impazziti che si precipitavano per centotrentatre gradini -ebbi modo di contarli a guerra finita- negli scantinati sotto casa.
Lì c'era un gioco. Lo ricordo bene. Aspettavo ansioso il mio turno, sperando che l'allarme finisse il più tardi possibile. Era un semplice cancelletto di legno incardinato ad una parete, sul quale salivamo mentre qualcuno lo spostava avanti e indietro. A turno, ora un bambino ora un altro. Se una bomba fosse caduta sulla casa, saremmo rimasti sepolti sotto cinque piani di macerie. Mentre per gli adulti i bombardamenti provocavano il terrore della morte, per me rappresentavano due diversi giochi: stare fermi o muoversi sul cancelletto. L'occasione di un gioco, insomma, ecco cos'era la guerra per me.
Un giorno questo cessò, quando le sirene non suonarono più e in casa furono esposte le bandiere, tre o quattro per quante erano le finestre. I giochi della guerra erano finiti.
Vidi dalla finestra, ginocchia sul basso davanzale, tenendomi per le sbarre che impedivano di volare dal quinto piano, tante persone che sfilavano per la via Udine: chi aveva il fucile, chi solo la pistola, chi l'una e l'altro, chi forse niente. Anche donne. Alcuni aveva un fazzoletto al collo, alcuni era in divisa, altri no. C'erano alcuni che agitavano una bandiera. Non ricordo che ci fossero automezzi. Non sapevo né chi fossero nè cosa facessero.
Erano i Titini, così erano chiamati, che entravano vittoriosi a Trieste. Non so se fosse una parte dell'esercito e se un'altra parte stesse sfilando lungo la strada sottostante, quella della stazione. Non so se fossero partigiani e cittadini che spontaneamente si fossero uniti a loro. Per me era un evento del tutto nuovo, che si sovrapponeva all'immagine, di un soldato tedesco sparato mentre fuggiva -ai miei occhi di bambino semplicemente correva. Ero curioso di vedere quando si sarebbe rialzato per continuare a correre. Ovviamente non si rialzò, almeno fino a quando mia madre mi tolse dalla finestra. Forse vidi anche chi gli sparava, oppure è solo il ricordo di un racconto. Vidi veramente l'oste della trattoria nella piazzetta mentre gli sparava? O qualcuno mi disse dopo che ad ucciderlo era stato lo slavo?
Anche le persone che, in fila o in gruppo, passavano sotto le finestre e alzavano lo sguardo sarebbero state solo una sequenza di immagini, se improvvisamente in casa non ci fosse stato un correre a chiudere le finestre, la porta d'ingresso, a fare cose veloci, senza senso, a gridare, a proteggerci a letto. Ricordo bene la concitazione di quei momenti.
Uno, ma forse due o più giorni dopo, vidi il nostro portone d'ingresso, al n.26, per metà sfondato e gettato a terra e quel grande atrio -o almeno a me appariva tale- diverso nel suo originale decoro, oggi direi profanato.
E capii dai racconti dei miei con la portinaia, la signora Domenica, cosa fosse accaduto. I Titini avevano sfondato il portone, erano saliti al piano sottostante il nostro, erano entrati nell'appartamento dei signori Prenusshi e avevano dato fuoco ad una delle bandiere esposte dalla loro finestra.
Visto che tutte le finestre, o molte, avevano la bandiera esposta pensavo che non bisognava esporre le bandiere. Sulle nostre, bianco, rosso e verde, ma non su tutte, mia madre aveva cucito una stella. Dopo alcuni anni capii che la bandiera bruciata era diversa dalle altre, aveva lo stemma sabaudo di casa Savoia.

Quaranta giorni dopo -posso dirlo ora che so quanto durò la presenza titina- consegnai un mazzo di fiori, che mi era stato dato, ad un americano, un uomo nero, che guidava un automezzo di qualche genere e che mi prese in braccio, forse posandomi sul muso della macchina. Forse, non ne sono certo: può darsi che fosse solo un mio desiderio.
Le truppe che passarono in quel giorno -era il 12 giugno- furono chiamati i liberatori.


San Marco Argentano, 10 febbraio 2021

Paolo Chiaselotti



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